Un pregiudizio mi dettava un’idea, di Marco Delogu, essenzialmente «mondana»: nel bene e nel male che – in un microcosmo come quello romano – tale connotato può rivestire (per ben dodici anni ha diretto la «Commissione Roma» al Festival della Fotografia). Conoscevo in effetti i suoi lavori, piuttosto inquietanti, sul corpo-tela di Giosetta Fioroni (Senex e L’altra ego); ma ignoravo per esempio Cattività – una sua caravaggesca, febbricitante serie di ritratti di carcerati a Rebibbia.
E ignoravo, soprattutto, il lavoro che da anni va facendo sulla Roma notturna, sfociato nella serie Luce attesa che ho finalmente potuto ammirare alla Fabbrica del Ghiaccio di Milano, durante l’ultima edizione di Book City, e poi all’ultimo Festival della Fotografia (conclusosi al Macro lo scorso 11 gennaio), dove per la prima volta ha deciso di esporre i suoi stessi lavori: i quali ora approdano alla pubblicazione in volume. A sorpresa, dunque, la Roma del Delogu artista si rivela tutto meno che «mondana»; la si può ben definire, al contrario, «oltremondana»: per come, per esempio, appare metafisicamente, micidialmente deprivata di presenze umane. Se lo stereotipo legato alla secolare iconografia di questa città è fatto essenzialmente di luce – frontale, diretta, gloriosa; oppure estenuata, appagata, dolcemente declinante – e di colore – invadente, sempre irresistibile colore-calore umano –, la Roma notturna e sfocata di Luce attesa, o quella accecata e decolorata dei Soli neri, è davvero il suo dark side: rimosso in ombra che di quel vieto stereotipo è contraltare segreto e salutare contrappasso.
Questa «polarità inversa», come la chiama Bartolomeo Pietromarchi, è ottenuta da Delogu facendo ricorso – spiega Éric de Chassey – all’antica tecnica dell’Eliografia: esposizioni prolungate che consentono di cogliere ogni minimo riflesso della luce lunare o, viceversa, di rendere appunto «in negativo» quella del sole – che appare infatti, nell’immagine, come un abbacinante disco nero. In queste ultime fotografie Delogu (che s’è appostato nelle locationsprescelte, al cadere esatto del solstizio, per cogliere il sole precisamente sulla verticale…) è così riuscito a visualizzare una delle leggende più misteriose, quella veterotestamentaria del «demone meridiano»: che per la verità i Padri della Chiesa collegavano piuttosto all’acedia che alla melancholia simboleggiata dal «sole nero», ma che per esempio nell’immaginario di Ungaretti – altro cantore «disumano» di Roma – si collega alla sua idea del barocco come catastrofe («l’estate fa come il barocco: sbriciola e ricostruisce»), facies hyppocratica che della storia gloriosa della Città Eterna rivela il paesaggio in rovine.
«Rovinato», da questa solarizzazione «incendiaria» (scrive Delogu: «Volevo che il sole nero, moderno Nerone, bruciasse tutto»), è così non solo il «colore locale» di un immaginario collettivo purtroppo duro a morire (quello da ultimo celebrato, per esempio, dal Sorrentino della Grande bellezza), ma anche quello affettivo del ricordo personale. I luoghi sui quali splendono i «soli neri» di Delogu, infatti, non sono quelli logorati da miliardi di cartoline bensì quelli, feriali e dimessi, della propria memoria famigliare (il cinema America a Trastevere, l’insegna a caratteri gotici sulla sede del «Messaggero», il ristorante «Il Biondo Tevere» della via crucis pasoliniana…): in tal modo a sua volta resa spettrale, disumana, spopolata con beckettiana spietatezza.
Logica, a questo punto, la successione con la serie propriamente intitolata Luce attesa, che di contro ci offre alcuni dei luoghi più gettonati dell’infinito repertorio figurativo e letterario della Città (il Palatino, Villa Medici, ecc.) – luoghi che però, a questa luce lunare, ci appaiono a loro volta spettrali, quasi minacciosi, immersi in una specie di eterno crepuscolo boreale, norreno (non a caso, in quelle notti di giugno del ’14 in cui Delogu vagava per l’Agro Romano e sotto gli Acquedotti – testimonia con un sorriso Edoardo Albinati, suo complice da sempre – faceva un freddo davvero unheimlich), che ne deforma l’aspetto, ne smangia i contorni, ne sbriciola l’auctoritas aristocratica e arrogante. Non sono le rovine di Piranesi, ma dell’immaginario «rovinistico» hanno l’allure imponente, sprezzante, e insieme in qualche modo sfuggente, evasiva, abitata da un vuoto intimamente divorante.
Come dice Pietromarchi, davvero «siamo di fronte ad “apparizioni” più che a immagini»; e viene da pensare, allora, a un classico «rovinistico» oggi dimenticato ma che a lungo è stato cruciale, entro il suddetto repertorio letterario: quelle Notti romane pubblicate a cavallo del 1800 da Alessandro Verri, nelle quali il già illuminista milanese (prigioniero del «carcere amoroso» della Marchesa Boccapadule Gentili e delle sue claustrofobiche Wunderkammern antiquarie) vedeva sgretolarsi i propri convincimenti giovanili, alla luce spettrale di una storia andata per tutt’altro verso, irrigidendo la propria stessa lingua, un tempo così mobile e spiritosa, in una serie di monologhi «monumentali» tenuti appunto, all’ombra del Sepolcro degli Scipioni da poco scoperto sull’Appia, da colossali «apparizioni», ammonitori fantasmi provenienti dall’Urbe Eterna: revênants schiaccianti come l’onirico Elmo nell’agghiacciante Castello di Otranto, allora fresco di stampa, di Horace Walpole… Una Roma stregata, fiabesca, crudele: dalla quale già Giorgio Vigolo, nel 1960, riprese il titolo di un suo libro di racconti. Guardando certe immagini di Luce attesa, in effetti, qualche brivido lungo la schiena può correre – e non di freddo.