Basta uno stretto braccio d’acqua, attraversato in pochi minuti di gommone, per piombare dal delirio vacanziero in un’oasi che, affascinante quanto le altre meraviglie della costa e dell’entroterra sardo, finisce per non avervi più nulla a che spartire, nulla di nulla, per la semplice ragione che è silenziosa, deserta, distante anche mentre ci metti i piedi sopra, persino in pieno luglio – dunque non più solamente bella, ma, letteralmente, sublime. La differenza tra il bello e il sublime va studiata nei manuali di filosofia e di estetica, però andando all’Asinara la si sperimenta allo stato puro. Ecco, la parola “esperimento” risulta particolarmente adeguata a questo luogo estremo, e chi visita l’isola ha la sensazione di entrare a farne parte. Di venire cioè sottoposto alla tensione del luogo onde misurare l’intensità delle sue reazioni: alla bellezza selvaggia, al vento, al volume di dolore umano irradiato negli anni, ai profumi, alla luce netta, alla potenza della nominazione di famosi banditi e leggendari giudici che qui hanno soggiornato. Alla sparsa popolazione di asinelli bianchi e grigi, dal malinconico sguardo bistrato. Di tutti gli esperimenti che vi sono stati condotti nel corso del tempo restano tracce imponenti o scheletriche. L’Asinara è stata quasi tutto l’immaginabile della derelizione umana: carcere e supercarcere, campo di prigionia, colonia penale e colonia agricola, quarantena. E ora è un parco naturale esemplare. In tutta Italia, forse solo l’ergastolo in cima all’isola di Santo Stefano sprigiona un magnetismo equivalente. Ma l’Asinara vi aggiunge la sua varietà, la movimentazione, le aperture improvvise di visuale, la presenza enigmatica delle bestie. Santo Stefano è un Escorial regale e vuoto, il teatro San Carlo volato sopra uno sperone di roccia; l’Asinara è un’intera Provenza disseminata di ruderi, montagne, radure, valli fiorite, baie e scogliere, porticcioli, fortini e casematte e animali selvatici. Edoardo Albinati
Con le sue fotografie notturne, Marco Delogu raggiunge un punto inedito dove queste tensioni estreme sono sospese. Le figure e i profili si spogliano del loro significato e, se non ci fosse il titolo a ricordare la funzione che rivestivano (“Check point”, “Il bunker”, “Ossario”), diventano meravigliosamente anonime. Misteriose sì, ma non più minacciose. La bellezza e il male, poli assoluti e intransitivi dell’isola, non vengono eliminati, né conciliati tra loro (impossibile) ma messi tra parentesi. Almeno per una notte. L’intensità della vita resta come fantasma. È un sovrappiù, un residuo, lo stesso che permette a quelle forme di splendere miracolosamente nell’oscurità. La storia si è annullata, e con la storia anche la geografia. Dove siamo? Siamo lì, all’Asinara, certo, ma quell’esserci grazie a un tenue e delicato bagliore lunare che disegna appena il profilo delle cose, non corrisponde più alla litania dei nomi dei prigionieri e degli appestati, e nemmeno a quella delle specie botaniche che di giorno quasi accecano con i loro colori straordinari. Il fibrillante azzurro del mare battuto dalla luce, il suo sgargiante ronzio psichedelico, qui, tra queste tinte attenuate e filtrate quasi fino alla monocromia, non arrivano, e dunque non feriscono più. Accade cioè l’esatto opposto di quanto normalmente provocano la luce e il buio: è proprio quest’ultimo a far cessare eccitazione e spavento che sono legati a ogni luogo o evento straordinario. Di notte finalmente si respira dopo aver avuto durante il giorno il fiato mozzato dalla sorpresa. Nelle immagini create da Delogu ciò che dovrebbe essere unheimlich, non-familiare o addirittura angoscioso, perché immerso nella tenebra, si rivela invece come una scenografia poetica da sogno di mezz’estate: dove la vibrazione e il tumulto della vita si sono assottigliati in modo fiabesco, le strade bianche s’intravedono appena, i segnali di pericolo sono stati spenti perché non vi è più alcun pericolo, uomini e animali possono andare liberi e senza paura.
A narrow strait, crossed in a few minutes aboard a dinghy, is all it takes to go from the frenzy of holidaymakers to a sanctuary that, while as alluring as the other wonders of the Sardinian coast and inland areas, has nothing in common with them, nothing at all, for the simple reason that it’s silent, deserted, and distant even when you step ashore, even at the height of summer. Consequently, it’s not merely beautiful: it’s literally sublime. The difference between beautiful and sublime must be sought in books of philosophy and aesthetics, but if you go to Asinara you’ll experience it in its pure state. The word “experience” is particularly well suited to this extreme place, and visitors to the island have the sensation of becoming part of it. It is a feeling of being exposed to the tension of the place in order to gauge the intensity of its reactions: to its wild beauty, to the wind, to the volume of human sorrow radiated over the years, to the fragrances, to the clear light, to the power of the names of the famous bandits and legendary judges who stayed here. And to the small population of grey and white donkeys, with their melancholy dark-rimmed gazes. The traces of all the experiments carried out there over the centuries remain, some imposing, some skeletal. Asinara has been almost everything imaginable of human dereliction: prison and top-security prison, prison camp, penal colony and agricultural colony, quarantine. And now it is an exemplary nature reserve. In the whole of Italy, only the life-term prison perched atop the island of Santo Stefano emits an equal magnetism. But Asinara also has variety, movement, the sudden opening up of views, the enigmatic presence of animals. Santo Stefano is an empty, regal El Escorial, a Teatro San Carlo blown onto a rocky spur; Asinara is an entire Provence, scattered with ruins, mountains, clearings, flowering valleys, bays and cliffs, little ports, blockhouses and casemates, and wild animals.
Marco Delogu’s night-time photographs have allowed him to reach a new point where these extreme tensions are suspended. The figures and profiles are stripped of their meaning and, if it weren’t for the titles reminding us of their functions (Checkpoint, The Bunker, Ossuary), they would become marvellously anonymous. Mysterious, but no longer threatening. Beauty and evil, the absolute and intransitive extremes of the island, are neither eliminated nor reconciled (impossible), but parenthesized. At least for a night. The intensity of life remains like a ghost. It’s a surplus, a residue, the same that allows those forms to shine miraculously in the darkness. The island’s history disappears, and with it also its geography. Where are we? We’re there, on Asinara, of course, but our being there by a delicate, pale lunar glow that faintly traces the outline of things no longer corresponds to the litany of names of the prisoners and plague victims, nor to that of the botanical species whose extraordinary colours are almost blinding during the daytime. The fibrillating blue of the sea swept by the light and its lurid psychedelic buzz do not reach here – among these attenuated hues filtered almost to the point of monochromy – and thus no longer hurt. Consequently, what happens is the exact opposite of what is normally caused by light and darkness: it is precisely the latter that quells the excitement and fear associated with every extraordinary place or event. At night, you can finally breathe, after having had your breath taken away by surprise during the day. In the images that Delogu has created, that which should be unheimlich, unfamiliar, or even distressing, because it is immersed in darkness, instead reveals itself a poetic set for a midsummer night’s dream, where the vibration and commotion of life have magically dwindled, the white roads are barely visible, the danger signals have been turned off because there is no longer any danger, and men and animals can roam free and without fear.