(…) Questo “nigredo” – su cui sempre, ma in questo caso più vistosamente, Marco Delogu lavora – come l’antica nigredo alchemica ha molte funzioni. Racconta in primo luogo lo sforzo dello sguardo per formare l’immagine, l’immagine che vuole portare alla luce, che vuole appunto sottrarre all’oscurità cui tutti siamo condannati, noi tutti uomini oscuri. Racconta come l’oscuro, ciò che rimane in ombra, sia anch’esso immagine e come l’occhio di chi guarda non debba arrestarsi, arenarsi nell’immediata visibilità. Racconta poi come il nero qui sia anche l’ombra scura della mortificatio e l’interiorità ombrosa della vita sacerdotale, come rappresenti lo stigma di un dissolvimento, una diversa araldica dei corpi. Il nero infine, in queste foto, rinsalda la luce, potenzia la sua funzione formativa, la sua qualità di forma simbolica. Ma, credo, in questo passaggio al colore nero di Delogu c’è dell’altro. C’è una torsione da combattimento, una vocazione guerriera. Se la fotografia è sempre pura contingenza, emanazione dell’immanenza, transitorietà illusoriamente arrestata, è contro tutto questo che il fotografo dei Cardinali vuole combattere. E l’ombra è la sua arma. L’ombra che ciascuno porta in sé salva la figura dalla sua povertà contingente, la preserva dalla bidimensionalità effimera dell’immagine, la colloca in uno spazio scultoreo, monumentale, e insieme in uno spazio che contrasti: cioé storico, non decorativo.
(…) This “nigredo”, on which Marco Delogu always works, and here more pointedly than ever, has many functions like the ancient alchemical nigredo. It shows the effort of the looking in order to form the image, the image that he wants to bring to light, that he wants to rescue from the darkness to which we all are condemned. We are all of us obscure. It shows how the obscure, that which remains in the shadow, is in itself an image, and that the eye that looks should not stop and be stranded in what is immediately visible. It shows how the blackness here is also the dark shadow of mortification, and the shadowy interiority of the priestly life. As if it represented a stigma of a dissolution, a different heraldry of the body. The black of these photographs solders the light and strengthens its creative functions, its quality of symbolic form. I believe, however, that Delogu’s passage to black there is more. In them there is a combative tension, a warrior’s vocation. If photography is always pure contingency, an emanation of immanence, transience illusorily arrested, then it is against all this that this photographer of the Cardinals wants to fight. And the shadow is his weapon. The shadow that each person carries rescues the figure from its inherent poverty, it preserves it from the ephemeral two-dimensionality of the image and it places it within sculptural space. Monumental and at the same time a space of contrast, a historical and not a decorative space.