Emanuele Trevi (scrittore),
estratto da “Sogni e favole. Un apprendistato ”, 2019
Il diario d’ospedale di Hervé Guibert era uscito pochissimo tempo dopo la sua morte, come l’autore stesso aveva previsto. Appena pochi giorni prima di Guibert, il 16 dicembre del 1991, era morto anche Pier Vittorio Tondelli. Non si potrebbe immaginare due atteggiamenti diversi: Tondelli, arrivato nei paraggi della fine, si rivelò un uomo riservatissimo, chiuso in un nido di affetti familiari. Tutto quello che voleva si sapesse, passò attraverso il filtro della trasformazione artistica realizzata nelle pagine di Camere separate, che senza dubbio è il suo romanzo più bello. Guibert invece testimoniò il testimoniabile nei libri, e anche in tv, in una famosa puntata di Apostrophes, dove apparve già stremato, ma lucidissimo e ancora seducente. Non solo per la morte così precoce a pochi giorni l’uno dall’altro, non solo per la natura così acuta e fremente della loro sensibilità, il confronto tra Guibert e Tondelli è illuminante: in realtà non c’è nessuna differenza sostanziale tra l’esibizione di sé e delle proprie piaghe e il ritirarsi nell’ombra di un silenzio riservato. In quei mesi d’inverno, mentre il rogo del contagio divampava con tutte le sue morti orribili, non erano né le confessioni né le reticenze a dare la misura della realtà – quella che avevo visto sul volto di Arturo a piazza Navona. E non era solo un’esperienza privata, dovuta a una circostanza fortuita come quel nostro incontro. Le stesse cose che avevo visto io sui lineamenti del mio amico erano evidenti nel ritratto indimenticabile che Marco Delogu aveva fatto di Giovanni Forti per la copertina dell’«Espresso» del 9 febbraio 1992. Giovanni Forti era un giornalista di grandissimo livello, un uomo colto e curioso, che aveva accettato di scrivere un diario della sua malattia da pubblicare sulla rivista prima che fosse troppo tardi. Nel ritratto di Marco Delogu appare stanco, sereno, così consunto che basterebbe un soffio di vento a sollevarlo. Il naso è già affilato come quello dei morti, e sembra indossare dei vestiti che sembrano diventati troppo grandi per il suo corpo, dopo essere stati usati per tantissimo tempo, come se fossero diventati all’improvviso quelli di un altro. Un lievissimo sorriso accompagna la fissità dello sguardo nell’obiettivo, animando impercettibilmente gli altri tratti del volto coronati dalle orecchie sporgenti, di un rosa quasi diafano. Tutto l’insieme della sua presenza fisica sembra possedere la consistenza della paglia o delle foglie secche. La fotografia di Marco Delogu mi fa pensare non tanto alla visione frontale tipica del ritratto, ma a qualcuno che si volta indietro per l’ultima volta, salito a cavalcioni fino alla sommità di un muro – il muro che separa il visibile dall’invisibile – prima di calarsi dall’altra parte. Riprodotta in migliaia di copie, quell’immagine così eloquente, così satura di caducità e umanità, ha rappresentato per moltissime persone un accesso immediato, intuitivo alla verità della malattia nel suo strato più profondo, là dove davvero impariamo qualcosa della vita e del suo contrario, un piede che scende nella fossa senza mai toccare il fondo, l’altro ancora imbiancato dalla polvere del mondo.
Emanuele Trevi