I mestieri affiorano alle facce, fanno calcolo del loro lungo maneggio sul corpo. Vite da operai implicano poi fattezze. Che facce hanno gli artisti, che facce produce la dedica degli anni a inventar musica? Delogu, fotografo minerale di volti, estrae dalla compattezza del nero i suoi giacimenti di facce. Il nero è in fotografia quello che è l’aria in scultura, lo spazio martellato intorno alla figura. Ogni statua è l’insieme di sé stessa e dell’involucro d’aria che l’avvolge. Il nero è aria e inchiostro. Da esso Delogu fa emergere un alfabeto criminale di facce devastate dall’acustica.
Un enorme orecchio interiore riveste la membrana del loro cervello. La duramadre dei compositori di musica è un padiglione, una tenda beduina che ascolta il deserto. Più che voci, i ministri della musica sentono invocazioni di strumenti a fiato, a corda, a percussioni, più che aria respirano onde.
Il nostro cervello vive con l’ossigeno del sangue, come un feto in placenta. Il vercello di questi è irrorato da suoni dal fermento di un alveare insonne.
In superfice falleggia un volto che riduce tutti gli altri sensi a una comparsa.