Le caratteristiche di questa incerta e strana estate erano: le lune giganti, le nuvole, e il freddo. A causa del meteo instabile, non si sono mai viste tante nuvole in cielo e di forme così incredibilmente variate e colori accesi, tanto che i social network basati sulla condivisione di immagini sono stati tappezzati da tramonti e orizzonti saturi di striature porpora, viola, indaco, colonne maestose, battaglie ed eruzioni di nuvole, e anch’io, parecchie volte, mi sono ritrovato a bocca aperta a guardare in alto, chiedendomi se questo spettacolo avesse un significato, fosse un annuncio, la minaccia di qualcosa come un’invasione dallo spazio, oppure una sovrabbondanza naturale, simile a quella di certi bazar dove dalle bocche dei sacchi traboccano spezie e granaglie dai colori sgargianti, puri, psichedelici.
In una notte particolare mi è accaduto di intrecciare i tre temi estivi in un solo tragitto: la visita a Ponte Lupo, lungo la via Polense, intorno alla mezzanotte del 15 giugno scorso. Una delle notti di luna straordinaria, gigante, anche se essa appariva e spariva nel cielo appunto attraversato da una migrazione di nuvole, con lo strano effetto di passare dal buio pesto a una luce violenta come fosse sparata da proiettori cinematografici. Con il Fotografo e F. pensavamo di cavarcela percorrendo in macchina uno sterrato che fiancheggia la via Polense e poi proseguendo a piedi fin giù nel valloncello sbarrato dal Ponte, ma per fortuna è arrivata Viviana con la sua piccola jeep e accompagnati da lei ci siamo resi conto che a piedi non ce l’avremmo fatta. C’ero già stato di giorno un paio di volte, ma la notte trasfigura tutto, a cominciare dalle distanze e dalle pendenze. Nei campi di fieno appena tagliato sfavillavano gli occhi delle volpi, e inoltrandoci nel boschetto proprio sul parabrezza della jeep ci ha sventagliato addosso l’apertura alare di un grosso rapace, bianco, abbagliato dai fari. Poi il tratturo scassato che conduce a picco nella valle e la risalita verso il Ponte attraverso un mare di piante selvatiche cresciute ad altezza d’uomo, cioè quasi il doppio del normale, a cause delle piogge incessanti. Sembrava di navigare, lentamente, mentre i loro fusti si piegavano al nostro passaggio…
Finalmente, dove il valloncello si stringe, avvistiamo il ponte, o meglio, ne intuiamo la possente barriera scura, alta una trentina di metri e larga forse ottanta o magari di più, visto che da entrambi i lati l’acquedotto s’infratta dentro la boscaglia. Lasciamo la jeep e proseguiamo a piedi, incerti, abituandoci al buio, dove lentamente le forme si precisano. Poiché la luna è sorta alle sue spalle, il Ponte è un fantasma nero, i cui fornici si disegnano all’improvviso, illuminandosi a giorno, con un fascio di luce che li perfora da dietro, segno che le nuvole correndo veloci hanno permesso per un istante alla luna di fare capolino. Barcollando nel greto del torrente, che solo da pochi giorni è asciutto, passiamo attraverso gli archi sotto lo spessore impressionante del Ponte, e giunti dall’altra parte, finalmente vediamo la luna e le ombre drammatiche degli alberi che proietta sull’acquedotto.
Una luce bianca, freddissima, nel silenzio irreale interrotto solo dallo schiocco dei sassi di fiume e dal nostro ansimare, mentre il fiato (incredibile al solstizio d’estate!) si condensa davanti al nostro viso. Il Fotografo compie il suo lavoro cercando di non essere distratto dai nostri commenti che variano dall’estasiato, al brivido di paura, all’imprecazione per il freddo, alle brevi note archeologiche. Tra le ombre sul ponte ce n’è una davvero singolare, che non si capisce da quale oggetto venga proiettata, perché è alta e grossa come un albero ma la sua forma ricorda un corpo umano, una sagoma incappucciata… inutilmente cerchiamo tra noi e la luna la figura che possa dare origine a quell’ombra inquietante. Non la troviamo. Non esiste. La figura stampata sul ponte è quella di un monaco, sospeso da terra, a capo chino, come fosse impiccato…
E’ il perfetto complemento a questa notte romantica: il Monaco Appeso.
Solo alla luce supplementare di una torcia, capiamo che si tratta di un’erba, abbarbicata al Ponte e appena più scura del laterizio. E’ cresciuta con un profilo così netto da sembrare ritagliato. Sospiro di sollievo, anche se il turbamento, mascherato da risatine, non smette di agitarci. La luna ora è più alta ma capiamo che non passerà mai sull’altro lato, a illuminare la faccia dell’acquedotto che dà a occidente, verso Roma. O forse sì, ce la farà, ma tra due o tre ore, quando saremo del tutto congelati…
Con Viviana e F. ci rifugiamo in macchina battendo i denti. E’ l’esordio dell’estate più fredda della nostra vita. L’amico Fotografo verrà richiamato più tardi, dalle proteste, “Dai, andiamo!”, e salirà a bordo riluttante; ma una volta che saremo al caldo, nei nostri letti, lui resterà all’aperto e continuerà a vegliare e fotografare fino a notte fonda, aggirandosi tra i casali diroccati, dove la luce della luna si è riscaldata sino a diventare un incendio che dilaga per i campi.
“The peculiarities of this strange and unstable summer”
This strange and unstable summer was characterized by huge moons, clouds and low temperatures. Due to the changeable weather, there were more clouds than had ever been seen before, with such varied shapes and bright colours that the image-sharing social networks were plastered in sunsets and horizons saturated with purple, violet and indigo streaks, majestic columns, battles, and eruptions of clouds. On countless occasions even I found my jaw dropping as I looked at the sky, asking myself if this spectacle had a meaning; whether it was a sign, the threat of something like an invasion from space; or a natural excess, like certain bazaars, with sacks overflowing with spices and grains in pure, garish, psychedelic colours.
One special night I managed to roll the three summer themes into a single trip: a visit to the Ponte Lupo aqueduct, along the Via Polense, around midnight on 15 June this year. It was one of those nights with an extraordinary giant moon, even though it appeared and disappeared in the sky, crossed by a migration of clouds, creating the strange effect of going from total darkness to violent light like that of a cinema projector. Together with the photographer and F., we thought we could drive along a dirt track that runs alongside the Via Polense, and then continue on foot to the small narrow valley blocked by the aqueduct, but fortunately Viviana came with her little jeep, and as she accompanied us we realized that we wouldn’t have managed it on foot. I’d been there in the daytime a couple of times, but night transforms everything, starting with distances and slopes. The eyes of foxes flashed in the newly mown hay field, and, as we drove into the wood, the wings of a large white bird of prey, blinded by the headlights, flapped across the windshield of the jeep. Then we were on the dilapidated track that leads steeply down into the valley and back up towards the aqueduct, through a sea of wild plants that had reached the height of a man, twice as tall as usual, because of the incessant rains. It felt like sailing, slowly, as their stalks bent at our passage . . .
Finally, where the valley narrowed, we spotted the bridge, or rather we sensed the dark, powerful barrier, 30 or so metres tall and 80 wide or perhaps more, seeing as it is hidden among the undergrowth on both sides. We left the jeep and continued on foot, uncertainly, accustoming ourselves to the darkness, from which shapes slowly started to emerge. As the moon rose behind it, the aqueduct was a dark ghost, whose arches were suddenly delineated, illuminated by a ray of light that perforated them from behind; a sign that the racing clouds had allowed the moon to peep out for a moment. Lurching along the pebbly river bed, which had only been dry for a few days, we passed beneath the arches, under the impressive width of the bridge and, once on the other side, finally saw the moon and the dramatic shadows that the trees cast on the aqueduct.
It was a very cold, white light, in the unreal silence interrupted only by the crunch of the stones underfoot and our panting, while our breath condensed in front of our faces (incredible at the summer solstice!). The photographer went about his work, trying not to let himself be distracted by our comments, which ranged from rapturous to spine-chilling, cursing at the cold, and brief archaeological notes. Among the shadows on the aqueduct, there was a very unusual one and it was unclear what could be casting it, for it was as tall and large as a tree, but its shape resembled a human body, a hooded silhouette. We looked between ourselves and the moon in vain for the figure that could be creating that disturbing shadow. We couldn’t find it: it didn’t exist. The figure impressed on the aqueduct was that of a monk, suspended above the ground, his head bowed, as though he had been hanged . . .
I was the perfect complement to this romantic night: the Hanging Monk.
Only with the supplementary light of a torch, did we realize it was a creeper, clinging to the bridge and slightly darker than the bricks. It had grown with such a sharp outline that looked as though it had been cut out. We breathed a sigh of relief, although the shock continued to disturb us, masked by giggles. The moon was higher now, but we realized it would never move over to the other side, to light the side of the aqueduct that faces west, towards Rome. Or maybe it would, perhaps it would manage it, but in two or three hours’ time, when we’d all be completely frozen . . .
We took refuge in the car with Viviana and F., our teeth chattering. It was the start of the coldest summer of our lives. The photographer friend was summoned later, by our protests, “Come on, let’s go!” and got in reluctantly; but once we were in the warm, in our beds, he stayed outside and continued to keep watch and take photographs until the dead of night, wandering among the abandoned country houses, where the moonlight had warmed up until becoming a fire that spread over the fields.