C’è qualcosa di vagamente inquietante nella sequenza di personaggi colti in posa da Marco Delogu. Forse per l’insistenza bloccata di quella serie di sguardi e per la complessità psicologica del campionario di espressioni messe in scena, che rimandano a tutto un gioco di rapporti possibili, o per il contrasto accentuato tra il sintetico affiorare luminoso dei tratti fisiognomici e l’oscurità dello sfondo, che sottolinea l’esigenza dell’autore di delineare nell’insieme un gruppo a forte connotazione unitaria –in questo caso una categoria intellettuale, quella degli Scrittori- e contemporaneamente far emergere le singole individualità psicologiche. Oggi che l’identità stessa è un concetto imploso e in via di nuove definizioni, nessuna tecnica di rappresentazione può essere veramente pacifica. Marco Delogu lo sa bene, ma rilancia al tempo stesso l’efficacia dello sguardo fotografico come verifica critica e autocritica. Prende così partito per un’idea del fotografo non come voyeur di attimi fuggenti e momenti speciali di tipo bressoniano, ma come testimone lucido e non ingenuo, in una continua tensione insieme documentaria e introspettiva.
Antonella Marino